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« Torna agli articoli di Danilo Paolini

Lo scorso anno i quotidiani romani titolarono: «Smantellata la banda del cappottino». Ma il sollievo è durato poco. Sono tornati quasi subito. Ogni mattina qualcuno li scarica lungo la via Cristoforo Colombo, uno o due per ogni semaforo, dall’Eur fino a Porta Ardeatina, e poi ancora giù per via Baccelli fino al Circo Massimo. Restano fino al tramonto. Quando scatta il rosso sfilano lenti tra le auto in colonna con una mano a coppa, lo sguardo spento, il volto annerito dalla polvere e dallo smog, i capelli simili a ciuffi di stoppa.
In genere non parlano, né bussano al finestrino. Si fermano qualche secondo, se la moneta non arriva, passano oltre.
Difficile stabilirne l’età: potrebbero avere 20 anni come 80, ma per lo più danno l’impressione di una gioventù avvizzita per mortificazione. I loro sfruttatori li preferiscono afflitti da deformità agli arti o da problemi mentali. Si dice che li reclutino (li comprano?) nei sanatori dell’Europa dell’Est, in Romania o chissà dove. Si dice che qui, nella Capitale d’Italia o nei suoi paraggi, li tengano ammucchiati in posti simili a stalle, in condizioni che nemmeno le bestie. Per muovere i passanti alla compassione, li lasciano ai semafori nudi, con indosso soltanto un vecchio cappotto, sempre troppo largo oppure troppo corto. Quando va bene.
Qualcuno, infatti, deve accontentarsi di un sacco della spazzatura, di quelli neri, tenuto insieme con lo spago, le braccia e le gambe indifese che spuntano fuori grottesche, tragiche. Ai piedi, feriti e piagati, al massimo un paio di ciabatte da mare sformate. Uno strazio. Non si può notare quell’ignobile 'uniforme' senza comprendere che dietro a un tale scempio di dignità umana c’è una regia senza scrupoli. Criminali. Qualche mese fa, a un semaforo dell’Eur, un camionista impietosito ha preso un pacchetto che teneva sul cruscotto e lo ha passato dal finestrino aperto al 'cappottino' di turno: dentro c’erano due grandi pezzi di pizza a taglio, probabilmente il pranzo del camionista. «Se hai fame mangia, ma soldi non te ne dò», gli ha detto. Non era crudeltà. Era consapevolezza che niente sarebbe finito nelle tasche di quel povero ragazzo. Che le tasche nemmeno le ha. Era il rifiuto di contribuire, anche solo con pochi centesimi, agli sporchi affari della «banda del cappottino». Signor questore, signor comandante provinciale dei carabinieri, è davvero impossibile mettere fine a questa ignominia, fermare gli aguzzini, liberare quegli infelici? Signori candidati sindaci, che in questi giorni di campagna elettorale fate appello all’orgoglio di essere romani, c’è ancora posto per gli schiavi a Roma? La risposta, in entrambi i casi, dovrebbe essere «no»: non è impossibile dire basta, e non c’è posto per gli schiavi.
Ma, allora, è un’altra la domanda che s’impone: perché continua ad accadere?
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