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«Il sesto gradino dell'umiltà consiste nell'accontentarsi di tutto ciò che vi è di più umile e spregevole, e nel ritenersi operaio indegno e incapace di fronte a ogni ordine che viene dato, ripetendo con il profeta: "ero ridotto a nulla e non capivo, davanti a te stavo come una bestia, ma sono con te sempre"». Così la regola di San Benedetto (VII, 49-50).
Di fronte a questo testo, noi, uomini del XXI secolo, abituati a far valere i nostri diritti e a ricercare spasmodicamente la stima di sé, siamo più che tentati di protestare contro questa svalutazione della dignità umana e di noi stessi, foriera di complessi psicologici distruttivi. Prima di buttare tutto all'aria, dovremmo farci almeno incuriosire dall'inatteso finale di questo sesto gradino: "sono sempre con te". Parole tratte dal salmo 72,23 e che sembrano rivelare un'inaspettata pace, che nasce dalla consapevolezza di essere con il Signore. Leggendo questo breve passo della Regola si ha l'impressione di entrare in un sentiero impervio, faticoso, pieno di rovi ed esposto sull'abisso, al termine del quale però ci attende la pace di un lago di montagna con i suoi ruscelli e una florida vegetazione.
In effetti, San Benedetto ci esorta a liberarci da quell'affanno con il quale cerchiamo di tenere in piedi una piacevole immagine di noi stessi, agli occhi altrui e ai nostri stessi occhi, che è la vera, profonda ragione della nostra tristezza e insoddisfazione. E per liberarcene, ci viene messa davanti la strada dell'umiliazione, che ci chiede di accontentarci di quello che ci capita, di quello che la vita ci pone davanti, senza stare a recriminare che meritavamo di più, che i nostri talenti non sono stati compresi, che è colpa di Tizio o di Caio se non possiamo diventare quello che vorremmo, e così via.
"Questo sesto gradino", commenta dom Guillaume, "è il passaggio così importante dal sogno di sé all'umile accettazione di sé stessi. L'accoglienza semplice e pacifica della realtà" (Un cammino di libertà, p. 166). Passaggio che ci libera dall'assurda e sterile fatica di voler tenere in piedi un'immagine di noi stessi, per farci entrare nella libertà della verità. Il piegarci umilmente ai lavori più spregevoli e pesanti, come anche a quelli meno "rimunerati" e più monotoni, l'accettazione senza recriminazione di quanto ci viene chiesto, a prescindere che ci sia gradito o meno, sono la strada per questa liberazione. Una strada che però noi non solo vorremmo evitare, ma di fatto facciamo di tutto per sfuggire, fino a quando il Signore ci fa la grazia di chiuderci ogni altra via e far crollare ogni ponte.
In questo isolamento, in questo venire meno del nostro agitarci per far andare le cose secondo quello che noi pensiamo sia bene per noi, sorge il fiore dell'affidamento pacifico: "Fa' dell'essere da te plasmato ciò che vuoi. Io credo che, essendo buono, tu provvederai per me il bene, anche se per mio vantaggio non lo conosco. Ma non sono neppure degno di conoscerlo, né chiedo di imparare per averne riposo: probabilmente ciò non mi giova. Né oso chiedere sollievo da una lotta, anche se sono debole e mi affatico in tutto, perché non so cosa mi giova. Tu sai tutto: fa' come sai (...). Io dunque non ho nulla. Davanti a te sono come un essere senz'anima: la mia anima la affido alle tue mani immacolate" (Pietro Damasceno, in Filocalia, III, p. 148). Questo affidamento ci libera dal pesante fardello di dover sempre corrispondere a uno standard costruito da mano d'uomo (molto spesso la nostra), per poter vivere nella grande pace di essere sempre con Lui.
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