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«In Italia sono arrivata a 16 anni. Venduta dai miei familiari». Nadia, rumena, la dice con apparente noncuranza la parola «venduta», ma poi risponde con una smorfia di dolore se le si chiede chi fossero quei familiari, forse i genitori? «Familiari», ripete soltanto. E venduta a chi? «Ad altri parenti che erano già qui in Italia. E che mi hanno rivenduta all'organizzazione criminale di altri rumeni». La promessa era la solita, un lavoro vero e remunerativo, la realtà però Nadia l'aveva presagita subito: «Da come mi avevano vestita e dal fatto che mi avevano destinata a un pub notturno avevo capito... E anche dalle cose terribili che si raccontavano in Romania di ciò che capita alle ragazze che vanno a lavorare in Occidente». E così scopriamo che l'orco - visto da fuori - siamo noi. Scopriamo con vergogna che, mentre qui si racconta di rumeni violenti e criminali, anche in Romania si racconta di italiani ladri di anime. E lei li ha incontrati davvero.
«Siccome non accettavo di prostituirmi, mi hanno chiusa due mesi in una cantina buia a pane e acqua. Ricordo l'odore, la muffa. Poi mi hanno portata sulla strada e stavano sempre in macchina dietro di me a controllare, così ho dovuto iniziare...».
Difficile chiederle del primo cliente, di cosa si prova e di come si riesce a sopravvivere, ma lei non ha remore: «Era sugli 80 anni, o forse 70, insomma, non so, io ne avevo 16 e lo vedevo anziano. Aveva due figlie e mi chiedeva di fare cose schifose». Di lui le resta netto il ricordo: «Sporco, sudato». Tutte le notti il tormento durava fino all'alba, a casa non poteva tornare con meno di mille euro, pena un massacro, e allora il conto dei clienti è presto fatto: «Li accontentavo uno dietro l'altro nelle loro auto, ognuno durava un quarto d'ora e pagava 35 euro». Nessuno disposto a qualche minuto di pietà? A parlare o magari ascoltare? «No, ai clienti interessa esclusivamente il sesso, per loro sei meno di un cane. Solo uno si era sfogato con me e io gli avevo chiesto aiuto, ma in realtà voleva solo che mi prostituissi per lui...».
Dopo tre anni così, Nadia, ormai 19enne, desidera solo una cosa: morire. «Supplicavo Dio di ammazzarmi», invece Dio una notte le manda due uomini molto speciali. La accostano seduti in macchina, uno dei due è corpulento e vestito tutto di nero, l'altro più mingherlino le fa meno paura. Tirano giù il finestrino e, «anziché il solito 'quanto costi?', mi chiedono con un sorriso 'quanto soffri?'. All'istante ho deciso di seguirli: se erano uomini buoni avrei ringraziato il buon Dio, se erano criminali magari morivo, ma era meglio che continuare così». Il mingherlino era don Aldo Bonaiuto, oggi tra i responsabili anti-tratta della Giovanni XXIII, l'altro era don Oreste Benzi in persona. «Mi hanno portata in una comunità e solo dopo due giorni ho realizzato che ero davvero salva. Era una cosa meravigliosa ». Lì comincia il programma di recupero, quello che lei chiama «la rianimazione », e tutti sono intorno a lei per proteggerla dai suoi aguzzini, inviperiti per aver perso una schiava preziosa, ma ancor più da se stessa: «Mi hanno restituito la capacità di credere in me, io non ero più quello che mi avevano fatto fare, ero di nuovo Nadia!».
Che oggi si sta laureando e presto si sposerà con il suo fidanzato italiano. Va in giro a testimoniare perché «chi dice che le prostitute sono volontarie deve sapere che cosa accade in realtà», ma non ha mai accompagnato don Benzi sulla strada a parlare alle ragazze e nemmeno don Aldo, non ancora almeno, «è doloroso tornare sul marciapiede, seppure in modo così diverso... Ma prima o poi lo farò».
Perché c'è un ricordo che ancora scava la sua anima, ed è proprio l'indifferenza dei passanti: «Il sabato sera dalle macchine i giovani con le loro fidanzate mi gridavano insulti, sputavano, ridevano di me, e io desideravo tanto andare come loro al bar, in discoteca a ballare, avere degli amici, studiare, vivere, e mi chiedevo: ma perché io devo essere una schiava? Perché non posso vivere? Volevo solo i miei sedici anni...».
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