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Le diatribe scoppiate in questi giorni fra Google e la Cina e poi fra Washington e Pechino rappresentano un messaggio importante per l’intera comunità internazionale. A metà gennaio, il gigante di Internet ha scoperto che i suoi sistemi cinesi sono stati violati da alcuni hacker locali (forse su commissione del governo di Pechino), i quali sono riusciti a rubare e dati e indirizzi e-mail di dissidenti. Google, a quel punto, ha deciso che la misura fosse colma. La società americana aveva già accettato una buona dose di censura entrando nel mercato cinese nel 2006: filtraggio di contenuti critici sul Partito comunista; cancellazione di materiale concernente Tibet, Taiwan, Falun Gong, persecuzioni religiose... La scelta di Google era stata bollata dai cybernauti come tradimento della libertà della Rete, uno dei principi sbandierati dalla stessa compagnia, che si era difesa dicendo che «un po’ di informazione libera è meglio di niente». Frustrata dalla incontentabile censura di Pechino, Google vuole ora riconsiderare il suo rapporto con le autorità e da una settimana ha tolto ogni filtro alle sue informazioni, con grande gioia di milioni di cinesi che finalmente trovano con facilità notizie sul massacro di Tiananmen, sulle violenze contro il Dalai Lama e gli uiguri, sulle accuse di corruzione al Partito. Fra i cinesi c’è però il timore che il regime non demorda e costringa la società Usa a sottomettersi di nuovo alla censura o a uscire dal Paese.
L’iniziativa di Google ha dell’eroico.
Fino a ora tutte le compagnie di Internet (Microsoft, Yahoo, Skype, Cisco...) avevano accettato una dose di censura per rimanere sul mercato cinese (384 milioni di utenti). Google si è però accorta che la Cina, come ogni dittatura, non è mai soddisfatta e domanda una sottomissione sempre maggiore. È possibile che dietro l’'umiliazione' delle aziende straniere vi sia il tentativo di dare più spazio a quelle locali, come Baidu, che sta soffrendo per la crisi e mal sopporta la concorrenza. La causa di Google è stata sposata da Hillary Clinton che due giorni fa ha accusato Pechino (e qualche altro Paese) di erigere un 'nuovo Muro di Berlino' su Internet. Il ministero degli Esteri ha riposto con durezza, rivendicando la volontà di seguire le proprie leggi e giudicando l’intervento della Clinton «dannoso» ai rapporti fra Cina e Stati Uniti. Anche per il segretario di Stato si può parlare di 'conversione' o di ripensamento.
Solo un anno fa, a Pechino, avevo messo in chiaro che l’Amministrazione avrebbe discusso di tutto con la Cina, ma senza mettere in crisi le relazioni economiche. Tuttavia, forse anche Hillary Clinton si è resa conto che la Cina vuole sempre di più: al silenzio di Washington su Dalai Lama, uiguri e arresti di dissidenti non corrisponde un’apertura altrettanto generosa sull’economia, che resta ancora molto protetta. La vicenda di Google sembra segnare la fine dell’omertà, del tacere le violazioni ai diritti umani in cambio di ricchi contratti. Ci si è accorti che dove la libertà di informazione è minata, prima o poi viene azzoppata anche la libertà di commercio, e che l’unica via per lavorare con Pechino è accettare una solidarietà 'mafiosa'. I più felici di questa diatriba sono gli attivisti per i diritti umani. Molti cinesi, alla notizia della rimozione della censura, hanno inscenato veglie a lume di candela e deposto fiori davanti alla sede pechinese di Google. Vari blogger hanno inneggiato alla società Usa e hanno domandato la libertà per Hu Jia e per Liu Xiaobo, due attivisti condannati a 4 e a 11 anni proprio per aver diffuso su Internet le loro idee di democrazia e l’auspicio della fine del Partito unico. Il controllo sulla Rete è l’unico modo per tenere sottomessa la popolazione e la censura è il metodo per mantenere il potere.
L’informazione è potere; la mancanza di informazione sostiene la dittatura.
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