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La nuova consapevolezza è frutto del sangue di Hrant Dink, il giornalista ucciso due anni fa. Persone collegate al suo omicidio compaiono anche nel processo Ergenekon, il gruppo clandestino ultra-nazionalista accusato di pensare ad un colpo di Stato.
“Il mio cuore non accetta che la gente sia insensibile alla grande tragedia che gli armeni ottomani hanno vissuto nel 1915. Respingo questa ingiustizia e condividendo il loro dolore e sentimento, chiedo scusa ai miei fratelli armeni”. Questa la quanto mai coraggiosa petizione online, lanciata da trecento intellettuali turchi (giornalisti, scrittori e docenti universitari) per chiedere il riconoscimento ufficiale del genocidio degli armeni durante la Prima guerra mondiale. Da un mese sta circolando su Internet e ha già raccolto più di 27.650 firme di cittadini turchi.
Forse non sarà una petizione a cambiare l’intransigenza da sempre mostrata dai governi turchi nei confronti del genocidio degli armeni, ma sicuramente è un segnale che qualcosa sta cambiando nell’opinione pubblica della nazione.
Questo è certo uno dei frutti più significativi del sangue versato due anni fa da Hrant Dink: giornalista armeno turco assassinato per strada con tre colpi di pistola nel centro di Istanbul. Condannato a sei mesi per “insulto all’identità turca”, in base all’articolo 301 della Costituzione per aver osato parlare, da armeno, di genocidio, nelle pagine del suo settimanale Agos e nelle interviste che rilasciava all’estero, diventò “il nemico dei turchi” e fu in fondo condannato a morte proprio da quella giustizia di Stato che avrebbe dovuto difendere un suo cittadino e il suo diritto di parola.
Era il 19 gennaio 2007 quando venne ucciso da un giovane ultranazionalista. E a due anni di distanza, appare sempre più chiaro che nella vicenda del fondatore e direttore di Agos, per la quale è in corso un processo sempre più lontano dalla conclusione ci sono tutti i mali della Turchia: il nazionalismo anti-armeno e anti-cristiano, i limiti alla libertà di espressione, lo strapotere delle forze dell'ordine e di alcuni politici, le difficoltà del Paese a fare i conti con il passato.
Sul banco degli imputati per il processo Dink ci sono 18 uomini. Sono Ogun Samast, il giovane che ha premuto il grilletto, e i suoi 17 complici, con storie molto diverse, ma accomunati dal fanatismo ultranazionalista. E non a caso, anche nel grande processo che sta sconvolgendo da più di un anno tutta la Turchia per il coinvolgimento di noti personaggi politici e militari, ci sono anche uomini implicati con l’omicidio di Dink. Sì, tra gli 86 arrestati per Ergenekon, il gruppo clandestino ultra-nazionalista che univa burocrati, militari in pensione, nazionalisti e gang criminali c’è Veli Kucuk generale in pensione che aveva minacciato di morte Hrant Dink. e Kemal Kerincsiz, l'avvocato che più volte aveva portato Dink in tribunale per "denigrazione dell'identità turca" e anche Fuat Turgut, avvocato del mandante dell'omicidio Dink.
L'omicidio di Dink è stato uno shock per tutta la Turchia: ovunque foto giganti dell’assassinato, candele sul marciapiede, 100mila democratici al funerale coi cartelli “Siamo tutti armeni”. Nessuno mai si sarebbe aspettata una partecipazione così vistosa e sentita. Incoraggia la solidarietà dei democratici e degli intellettuali, sono sempre più numerosi i sostenitori di Agos, con migliaia di nuovi abbonamenti, e incoraggia la petizione online, ma c’è ancora anche irrigidimento e prese di posizioni contrarie forti.
Quasi un secolo dopo, il genocidio degli armeni resta ancora difficile da affrontare in Turchia. E così, benché il presidente turco Abdullah Gul, si sia schierato nei giorni scorsi a sostegno della campagna lanciata su Internet e abbia affermato che tutti hanno il diritto di esprimere liberamente la propria opinione, contro di essa si sono levate le proteste di ex ambasciatori e diplomatici che l´hanno definita sbagliata e contro gli interessi nazionali. Lo stesso primo ministro Recep Tayyip Erdogan, dopo le reazioni rabbiose da parte dei circoli nazionalistici, ha preso le distanze da questo appello degli intellettuali che presentano le loro scuse alle vittime: “Respingo questa campagna - ha affermato - e non la sostengo. Non ho commesso alcun crimine, di che dovrei scusarmi?”.
Così, dieci giorni fa, sei magistrati turchi hanno presentato una petizione chiedendo che vengano puniti gli organizzatori della campagna. Come se non bastasse Arat Dink, figlio del giornalista armeno, è ora sotto processo, con la richiesta di una condanna a sei mesi, ai sensi del famigerato art. 301, con l’accusa di “insulto all’identità turca”. Motivo dell’imputazione, la pubblicazione su Agos (di cui è diventato editore dopo l’assassinio del padre) di un’intervista rilasciata da Hrant nel luglio 2006 all’agenzia Reuters e nella quale si faceva espresso riferimento al genocidio del popolo armeno.
Ma fino a quando potrà andare avanti questo braccio di ferro sul negazionismo? Quando il 6 settembre 2008 il presidente Gul, ha visitato Yerevan, capitale dell’Armenia, per assistere ad una partita di calcio tra Turchia e Armenia, a differenza degli altri capi di Stato, si è rifiutato di entrare nel museo che raccoglie documentari e fotografie del genocidio. Tuttavia, sempre più turisti e giornalisti turchi visitano questo museo. ”Sono più di 500 i turchi che sono venuti qui nel 2008. Un numero enorme per noi, senza precedenti”, ha detto Hayk Demoyan, direttore del Museo. “La loro, inizialmente, è sempre una reazione di shock. D’impatto rimangono sconvolti e negano. I più, poi, cominciano ad interrogarsi sulla storia della propria nazione. Sicuramente tornano a casa diversi”.
E’ proprio quanto sosteneva Hrant Dink a difesa del popolo turco, che amava. Quando gli si chiedeva come mai i turchi non volevano ammettere il genocidio, rispondeva che ciò non era motivato da cinismo o ipocrisia, ma “perché pensano che un genocidio è una cosa brutta, che loro non farebbero mai, e perché non possono credere che i loro antenati lo avrebbero fatto. Lo negano principalmente perché non lo conoscono, non ne sanno nulla. Lo percepiscono solo come una minaccia alla loro identità”.
Proprio l’assassinio di Hrant Dink ha portato alla luce fermenti di solidarietà e di consapevolezza, impensabili solo qualche anno fa. Segnali di speranza, speranza in un processo certamente lento e lungo, faticoso e contrastato, ma che porterà la Turchia a fare i conti con questo “buco nero” della sua storia, uscendone rinforzata. Molti infatti non hanno dubbi: se questa sindrome di negazione non viene debellata, aprendo un dibattito sereno su tutti i capitoli della storia turca moderna, sarà molto difficile che il Paese possa compiere la trasformazione da Stato autoritario a Stato democratico, basato sul riconoscimento dei diritti universali. In gioco c’è non tanto il passato, quanto il futuro della Turchia. “C’è bisogno - sosteneva Dink in un’intervista a Radikal nel 2006 - di un processo in cui l’informazione e l’espressione si liberino. Con lo sviluppo della nostra democrazia, a mano a mano che impariamo, anche le nostre coscienze cominceranno a mettersi in movimento. Deve esserci libertà di espressione. Una Turchia che non riesce a parlare con se stessa non avrà nulla da dire agli armeni. (…) Non intendiamo rimanere arenati nella storia. Ciò che conta è riuscire a salvaguardare il nostro avvenire”.
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