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« Torna agli articoli di Pierfrancesco Nardini

La critica, costruttiva e determinata, verso ogni errore sulla dottrina cattolica da parte di ogni singolo membro della Chiesa (sacerdote o laico), quindi anche della gerarchia fino al grado più alto, è necessaria ed inevitabile. Si mancherebbe ad un preciso dovere.
Le modalità, le forme di questa critica però non possono che essere basate sul rispetto.
Se questo (il rispetto) vale per ogni persona con cui si discute, a maggior ragione deve valere se l'interlocutore ha una carica, più o meno importante.
Una spiegazione molto chiara la fa dire De Wohl a Santa Caterina da Siena: "Un sacerdote può essere inadeguato, può essere un uomo votato al male, tuttavia è attraverso le sue mani che riceviamo il Corpo e il Sangue di Gesù, quindi dobbiamo rispettarlo" (La mia natura è il fuoco).
L'aggressività esasperata e/o l'uso di un linguaggio troppo forte in queste situazioni, purtroppo molto frequente, comporta più problematiche che vantaggi. Diventa controproducente.
Quando si discute, si deve sempre pensare all'efficacia che hanno le nostre parole sull'interlocutore. Un tono forte a volte può essere utile, anche più efficace. Non deve però diventare eccessivo, rabbioso, addirittura offensivo. Sia che si parli con un sacerdote sia con un fedele (laico).
Si sentono molto spesso invece toni e parole irrispettose, oltraggiose rivolte alla gerarchia della Chiesa. Ci si chiede: quale effetto possono avere? Quale efficacia?
Il rischio di far allontanare l'interlocutore invece di avvicinarlo è grande. Se questo è confuso o pensa in modo errato sulle verità della fede, se aggredito o preso in giro o se sente parole forti o addirittura insulti contro il Papa o un sacerdote, non si avrà di certo l'effetto di fargli capire ciò che anche di giusto si vuole dire e denunciare.
Se, invece, con modalità ferme (sui principi) ma rispettose (della persona ma, soprattutto, della carica che ha), proviamo a spiegare, spostiamo l'attenzione sull'oggetto (errori, problematiche, crisi) e non sul soggetto.
È quel che si dice con: fortiter in re, suaviter in modo. [...]
Non si cada allora nell'equivoco di pensarci bravi apologeti, ottimi disquisitori sulla crisi, solo se si alzano i toni, se si controbatte in modo scomposto o troppo forte. Teniamo a mente che noi stessi non saremmo attratti da un linguaggio aggressivo, ma da uno assertivo, non dall'attacco alla persona ma dalla confutazione motivata di quel che dice, non dallo sbilanciarsi sul foro interno, ma sul foro esterno.
Infine, non si deve pensare che suaviter significhi una mielosa, blanda e quindi insensata contrapposizione, né una forma di complicità: è solo il tono, la forma del fortiter, della ferma e precisa confutazione degli errori.
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Pubblicato 10 anni fa...
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