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La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo quest'anno compie 60 anni. È stata firmata a Parigi il 10 dicembre 1948. Nell'anno trascorso le Nazioni Unite ne hanno celebrato l'anniversario con una campagna mondiale intitolata Dignità e giustizia per tutti, inaugurata lo scorso 10 dicembre.
Ma proprio il 2008 andrà ricordato come uno dei peggiori per numero di persone private dei loro diritti fondamentali e quanto a incapacità da parte dell'Onu di porvi rimedio. Quel che più colpisce è che nella maggior parte dei casi si tratta di violazioni gravi dei diritti dell'uomo commesse, oppure ampiamente consentite, dalle istituzioni che invece li dovrebbero tutelare.
Le violenze contro i cristiani in India, il colpo di stato in Mauritania, la crisi post elettorale in Zimbabwe sono alcune delle crisi maggiori tuttora in corso e che le Nazioni Unite, malgrado i molteplici strumenti a disposizione, non sono in grado di risolvere. Ma esistono anche altre violazioni dei diritti umani che colpiscono quotidianamente centinaia di milioni di persone e rispetto alle quali l'Onu si dimostra altrettanto impotente. Due notizie recenti, scelte tra quelle, innumerevoli, ogni giorno pubblicate dai mass media, richiamano l'attenzione sulla persistenza di istituzioni che, in accordo con quanto affermato nella Dichiarazione del 1948 e nei protocolli approvati e sottoscritti successivamente dalla maggior parte degli stati membri delle Nazioni Unite, dovrebbero essere state estirpate ovunque.
In Pakistan alcune organizzazioni non governative impegnate nella difesa dei diritti umani, dopo settimane di pubbliche manifestazioni di protesta, sono riuscite a indurre le forze dell'ordine a riesumare i cadaveri di cinque giovani donne e ad aprire un'inchiesta sulla loro morte avvenuta in un villaggio del Balochistan. Tutte e cinque sono state sepolte vive. Tre sono state punite per essersi sposate di propria iniziativa senza il consenso dei famigliari, infrangendo l'istituzione tradizionale che in Asia e Africa impone ai figli, soprattutto alle femmine, di accettare le scelte matrimoniali dei genitori; le altre due hanno subìto la stessa sorte per averle aiutate. In favore dei parenti ora indagati si è schierato tra gli altri il senatore Sardar Israrullah Zehri, il quale li giustifica sostenendo che l'omicidio d'onore fa parte dei «costumi tribali»: un atto non solo lecito, ma doveroso per un capofamiglia che si rispetti.
In Arabia Saudita, negli stessi giorni, la Commissione per i diritti umani ha inoltrato al governo la richiesta di assumere finalmente una posizione «chiara e non ambigua» sui matrimoni infantili, un'istituzione che, sempre in Asia e Africa, priva ogni anno decine di migliaia di bambine dell'infanzia, costringendole a matrimoni con uomini sconosciuti e spesso di età avanzata: il che costituisce di per sé una violazione dei loro diritti, senza contare che le espone al rischio quasi certo di gravidanze precoci e impedisce loro di proseguire gli studi. «Le bambine non sono pronte per avere le responsabilità che comporta essere una moglie, un partner sessuale e una madre», sostiene il presidente della Commissione, Turki Al-Sudairy. Ma dal Marocco è subito giunta una smentita: lo sceicco Mohamed Ibn Abderrahmane Al-Maghraoui ha formulato una sentenza religiosa, una fatwa, in cui si dice: «Una ragazzina di nove anni ha le stesse capacità sessuali di una di venti e oltre». Dello stesso avviso sono le autorità religiose iraniane: una delle prime decisioni dell'ayatollah Khomeini, quando prese il potere nel 1979, fu quella di abbassare l'età minima per il matrimonio di una bambina a nove anni.
Queste due notizie sono particolarmente rilevanti perché riguardano due stati, il Pakistan e l'Arabia Saudita, che fanno parte del Consiglio per i diritti umani, l'organismo che dal 2006 ha preso il posto della Commissione per i diritti umani con l'incarico di vigilare sul rispetto dei valori di libertà, uguaglianza e sicurezza della persona. È composto da 47 membri: per l'anno in corso ne fanno parte anche Cuba, il Bangladesh e la Cina. Non c'è da meravigliarsi della sua inefficacia.
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