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Nell’attuale concezione femminista dell’uomo e della donna la differenza tra le due creature viene sostanzialmente annullata. Per Alexandra Kollontaj, famosa rivoluzionaria, amica di Lenin, impegnata su fronte della “liberazione della donna”, la realizzazione femminile passa dal lavoro fuori casa: l’educazione dei bambini, la cucina, la casa, la “cura” del marito, sono tutti residui di una cultura oppressiva da spazzare via per sempre, e totalmente.
L’utero stesso, in certo pensiero femminista, diviene un impiccio, in quanto “costringe” la donna ad essere madre, e a portare nel corpo i segni della inferiorità, impostale dall’uomo. Oggi questo pensiero è piuttosto dominante, anche se non sempre così esplicito. Le donne realizzate, quelle magari che occupano le copertine delle riviste e dei giornali che celebrano l’8 marzo, sono quelle che hanno avuto successo, come gli uomini, in politica, in banca, in televisione...
La casalinga è di per sé una “poveretta”, irrimediabilmente frustata, uccisa nella sua dignità. Anche la donna che per i figli rinuncia ad una carriera “migliore”, che esiga magari orari di lavoro troppo lunghi, è guardata con sospetto. Non voglio dire che il lavoro fuori casa non possa essere parte della realizzazione femminile, ma certamente, nella concezione cristiana della donna, esso non lo può essere principalmente. Anzitutto perché il lavoro è anzitutto una maledizione, divenuta, solo secondariamente, una benedizione. In secondo luogo perché tra uomo e donna vi è una grande differenza, che non può essere annullata o ignorata, come avviene in molta cultura occidentale contemporanea. Dire che l’uomo e la donna sono uguali in dignità, perché ugualmente creature di Dio, non esclude affatto che vi siano differenze per quanto riguarda i ruoli, le attitudini, le esigenze proprie dei due generi. Secondo l’attuale teoria del gender non siamo né uomini né donne, ma, gnosticamente, ciò che desideriamo divenire. Sempre in quest’ottica la famiglia non è più necessariamente l’unione di un uomo e di una donna, e, di conseguenza, un figlio non ha bisogno di due genitori di sesso diverso, ma qualsiasi soluzione fattibile e sperimentabile, è di per sé lecita. Che problema esiste, secondo i sostenitori di questa visione del mondo, se il padre non c’è? Se il figlio viene programmato, con la fiv, già orfano della figura femminile? E analogamente, chi lo ha detto che sia necessaria una donna per la corretta crescita di un bambino (vedi matrimoni gay)? A me sembra che la realtà sia ben diversa: ognuno di noi nasce uomo o donna. Ha cioè una natura maschile o femminile, ben visibile, anzitutto, fisicamente. Il corpo dell’uomo e quello della donna sono diversi: complementari. Questa diversità fisica, data in origine, non sottoposta alla nostra libertà, si accompagna ad una diversità psichica, quella invece in fieri, affidata alla realtà, all’educazione, alle circostanze, eppure anch’essa con una sua sostanza immutabile.
La donna nasce donna e nello stesso tempo deve divenire donna; lo stesso l’uomo. Natura è infatti un participio futuro: nasciamo e continuiamo a nascere... Ecco perché è possibile quello che avviene oggi: una rivoluzione antropologica tale per cui esistono sempre più uomini effeminati, che si truccano, che preferiscono lo shopping al calcio, che mettono lo smalto sulle unghie, e donne che farebbero paura agli scaricatori del porto di Livorno. E’ la nostra “cultura” che lotta con la natura, la perverte, invece di assecondarla e di realizzarla. La differenza tra uomo e donna infatti è originaria, ma va coltivata, aiutata, non ostacolata e violentata. Quanto alla specificità della donna, scriveva Edith Stein: "non solo il corpo è strutturato in modo diverso, non sono differenti solo alcune funzioni fisiologiche particolari, ma tutta la vita del corpo è diversa, il rapporto dell'anima col corpo è differente, e nell'anima stessa è diverso il rapporto dello spirito alla sensibilità, come rapporto delle potenze spirituali tra loro".
Questa differenza a mio modo di vedere si sostanzia in questo: la funzione, il ruolo materno della donna, che è la sua natura più vera, la rende più attenta al particolare, mentre la natura dell’uomo, che è la natura paterna, è più incline all’universale. La madre custodisce, protegge, conforta; il padre taglia il cordone ombelicale, divide, introduce nella società. Scriveva sempre Edith Stein: “Il modo di pensare della donna, e i suoi interessi, sono orientati verso ciò che è vivo e personale e verso l'oggetto considerato come un tutto. Proteggere, custodire e tutelare, nutrire e far crescere: questi sono i suoi intimi bisogni, veramente materni. Ciò che non ha vita, la cosa, la interessa solo in quanto serve al vivente e alla persona, non in se stessa. E a ciò è connessa un'altra caratteristica: l'astrazione, in ogni senso, è contraria alla sua natura. Ciò che è vivo e personale è oggetto delle sue cure, è un tutto concreto, e dev'essere tutelato e sviluppato nella sua completezza; non una parte a danno dell'altra o delle altre: non lo spirito a danno del corpo o viceversa, e neppure una facoltà dell'anima a danno delle altre. (…) A queste disposizioni materne si uniscono quelle proprie della compagna. Saper partecipare alla vita di un altro uomo, cioè sapere prendere parte a tutto ciò, grande e piccolo, che lo riguarda alla gioia e al dolore, come al suo lavoro e ai suoi problemi: ecco il dono e la felicità della donna. L'uomo è tutto preso “dalle sue cose” e si aspetta dagli altri che mostrino per quelle interesse e pronta collaborazione; per lui in genere è difficile mettersi alla dipendenza di altri, dedicarsi alle cose altrui. Ciò invece è naturale per la donna; ella è in grado di penetrare con sentimento e comprensione nell'ambito di quelle realtà che di per sé le sono lontane, e delle quali non si prenderebbe cura, se non fosse l'interesse per una persona che le mette in contatto con esse”.
Cosa significa tutto questo? Semplicemente quello che vediamo ogni giorno: la donna nota il particolare, il calzino sbagliato, il colletto della camicia alzato, la smorfia del bambino diversa dal solito; legge con un solo sguardo ciò che il marito ha in testa, ne capisce con una enorme lucidità i pensieri, i problemi, le domande; ricorda le date, gli anniversari, tutto ciò che ha a che vedere con la vita di tutti i giorni... Sa essere madre sia del figlio che del marito, perché coglie la realtà così come si presenta a lei; si dedica interamente alla realtà, con spirito di servizio, di donazione.
“La donna, scriveva Gustave Thibon, in ‘Vivere in due’, è fatta per sacrificarsi alle persone che la circondano, per assicurare il futuro immediato dell’umanità. L’uomo, al contrario, è destinato a un’attività più universale: la sua missione consiste nel prodigarsi, spesso nello sciuparsi, per scopi altrettanto concreti, ma assai meno prossimi nel tempo e nello spazio. La donna vigila sulle sottostrutture, l’uomo sulle sovrastrutture. Non credo che queste due funzionino ad essere invertite come spesso accade ai nostri giorni”.
Questa attitudine della donna (generalmente intesa, con le dovute eccezioni), questo suo essere fortemente “incarnata”, come incarnato in lei è il figlio che porta nel grembo, la rende per molti aspetti più concreta, più capace di muoversi nella realtà immediata, come diceva Montale, alludendo a sua moglie Mosca nel suo “Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale”. L’attenzione della donna al particolare, così essenziale per la vita nascente e per la famiglia, si vede per converso anche nei suoi difetti: mentre il vizio dell’uomo può essere l’astrattezza, e la superbia, la donna rischia di cadere molto di più nelle piccole invidie e nelle piccole gelosie, legate appunto al particolare.
L’uomo ama la storia e la politica, discute di massimi sistemi, si crede il ct della nazionale, anche quando non fa politica o non sa per nulla giocare a calcio. La donna, di massima, preferisce la letteratura, la poesia, la psicologia, quando hanno a che fare con vicende, pensieri, emozioni concreti, sperimentati e sperimentabili nella quotidianità. Prendiamo un esempio concreto: la donna tragicizza talora il particolare, una lite col vicino, un malore del figlio, mentre l’uomo lo minimizza, alla luce dell’universale, e alleggerisce pesi che la donna farebbe troppo grandi, ma che lui, però, magari neppure noterebbe. Si instaura così un perfetto bilanciamento che evidenzia la complementarietà tra le due creature. La concretezza della donna, legata al suo compito di madre e di moglie, ha una grande funzione: la rende, tutto sommato, ottimista. E’ più difficile che la donna si ponga davanti problemi immensi, astratti, perché preferisce affrontarli e risolverli di volta in volta, ed è più raro, quindi, che ne rimanga schiacciata. E’ l’uomo che, intellettualizzando quello che invece andrebbe vissuto, con slancio di cuore, si rifugia, molto più spesso, statisticamente, nella droga, o nel suicidio. L’ atteggiamento femminile, più umile, più amoroso, più incarnato, la rende anche naturalmente più religiosa. La madre si inginocchia più facilmente del padre; l’amore è più umile dell’autorità. Sono più numerose le donne che pregano, che vanno in Chiesa, che sentono la loro dipendenza, degli uomini. Essi invece cercano le soluzioni più in grande, quelle sociali, politiche: possono essere, per dirne una, grandi inventori di splendide macchine, di grandi trovate, economiche, politiche, ecc., ma possono anche degenerare nell’astrattezza dell’ideologia e dell’utopia. Non è un caso che le ideologie e le utopie di morte, nate dalla sottovalutazione dei “particolari”, dalla astrattezza e dalla superbia, siano frutto di menti maschili, e non femminili. L’insoddisfazione nociva infatti nasce più facilmente in chi cerca di imporsi sulla realtà, piuttosto che in colei che, per sua natura, serve una realtà, la vita nascente, sperimentata fin da principio come dono.
Alla Madonna Dio ha dato il compito di curare e crescere Cristo stesso; a Pietro di guidare la sua Chiesa. All’uomo il compito di guidare la famiglia nelle sue scelte verso la società, verso l’esterno; alla donna il compito di guidare i figli e l’uomo, nelle scelte, fondamentali, della famiglia. Per questo una donna tutta “fuori” è una negazione della femminilità, nociva per la famiglia e quindi per la società intera; esattamente come un uomo tutto “dentro”, non può che creare problemi, dentro e fuori. Primati diversi, dignità diverse, dunque, per una identica dignità, lontano dalle miopi guerre tra i sessi.
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