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La chiamano “pillola dei cinque giorni”, perché la sua azione si estende fino a 120 ore successive al rapporto sessuale.
Ma che cos’è in realtà? EllaOne, questo è il vero nome del “farmaco”, funziona in modo simile al Norlevo, comunemente conosciuta come “la pillola del giorno dopo” anche se il suo raggio d’azione è limitato alle 72 ore dal rapporto a rischio. Entrambe queste pillole, infatti, impediscono l’annidamento dell’embrione nell’utero, se il concepimento è già avvenuto. Sostanzialmente viene bloccata la produzione di progesterone, ormone indispensabile per la maturazione dell’endometrio uterino e il conseguente impianto dell’embrione.
EllaOne viene definito “contraccettivo d’emergenza”, ma è ben chiaro come esso possa avere un effetto potenzialmente abortivo, impedendo all’ovulo fecondato di trovare nutrimento e quindi causandone la morte.
Non sono pochi quelli che l’hanno istintivamente associato alla pillola RU486, e non a torto. Infatti, EllaOne è un antiprogestinico che si comporta esattamente come la kill pill, anche se va detto che quest’ultima, essendo propriamente abortiva, prevede l’assunzione di mefipristone in dosi molto più massicce e per questo ha il potere di bloccare lo sviluppo dell’embrione anche se esso è già impiantato nell’utero.
Da metà agosto la “pillola dei cinque giorni dopo” è stata liberalizzata negli USA e in alcuni Paesi europei, sollevando subito moltissime polemiche.
Il dibattito si è concentrato sul diritto all’obiezione di coscienza da parte di medici e farmacisti, trattandosi di un “farmaco” potenzialmente abortivo. Realtà, questa, che è stata abilmente celata dietro la definizione: “contraccettivo di emergenza”.
Secondo Mario Eandi, docente di Farmacologia Clinica all’Università di Torino, “è un problema lessicale e di convenzione. Le polemiche sono appunto legate alle definizioni di aborto e di contraccezione. Quest’ultima dovrebbe essere considerata solo ciò che impedisce il concepimento, ma se è un sistema che agisce dopo l’unione dei due gameti (spermatozoo e ovulo), quindi dopo la creazione di u nuovo individuo, è chiaro che interviene allo stadio iniziale della vita da un punto di vista biologico e scientifico. E quindi con ricadute etiche ben diverse. Viceversa se − come fanno alcuni ginecologi − si definisce gravidanza il periodo che va dall’annidamento dell’embrione al parto, si usa una convenzione che, in modo capzioso, permette di non definire abortivo ciò che impedisce l’impianto in utero” (Avvenire, 20 agosto 2010). (...)
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