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Superati gli ostacoli dei giorni scorsi, il disegno di legge che istituisce le quote rosa nei Consigli d'amministrazione e negli organi di controllo delle società quotate in Borsa andrà in Aula il prossimo 15 marzo. In base alle nuove norme i suddetti organi dovranno essere costituiti da donne per un quinto a partire dal 2012 e per un terzo dal 2015. In caso di inadempienza sono previste diffide da parte della Consob, sanzioni pecuniarie – da 100 mila euro a un milione per i consigli d'amministrazione e da 20 mila a 200 mila euro per i collegi sindacali – e per finire la decadenza degli organi che non si adeguino entro sette mesi dalla prima diffida.
Le quote rosa sono state accolte con entusiasmo da più parti, tutti se ne dicono fieri e se ne attribuiscono il merito. Non manca neanche chi, come il presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, si augura che analoghi provvedimenti vengano estesi anche alle istituzioni pubbliche.
Ovviamente il lodevole obiettivo della legge è promuovere le pari opportunità per le donne.
Altrettanto ovvii sono però alcuni "effetti collaterali" indesiderabili. Può darsi innanzi tutto che non sempre si trovino abbastanza donne disposte a ricoprire certe cariche e capaci di farlo e allora le quote rosa costringono a scegliere persone inadeguate o quanto meno non del tutto adatte alle funzioni richieste. In secondo luogo, la norma ammette che persone con titoli migliori vengano scavalcate, perché di sesso maschile, per consentire il raggiungimento delle quote stabilite.
Ne consegue infine che in linea di principio le pari opportunità vengono giudicate più importanti del buon funzionamento di una impresa: cosa abbastanza discutibile.
A quanto detto si devono aggiungere tre fondamentali obiezioni. La prima è che, in un paese come l'Italia, sarebbe opportuno non sminuire il valore del merito e l'importanza della responsabilità individuale già non abbastanza apprezzati da una cultura diffusa che giudica negativamente intraprendenza e dedizione al lavoro.
In secondo luogo vanno prese le distanze anche da una mentalità che assume come ideale mezzo di affermazione personale la carriera, ma non necessariamente la crescita professionale, e che tende a liquidare le scelte di vita diverse come un fallimento o come un indice di impotenza.
La terza considerazione, cruciale, è che le pari opportunità vanno intese nel senso di condizioni quanto più possibile simili alla partenza – e quindi istruzione, salute, sicurezza per tutti – mentre non si possono e tanto meno si dovrebbero pretendere pari condizioni di arrivo, vale a dire per quel che riguarda i traguardi raggiungibili. In tale prospettiva, compito collettivo a cui lo stato deve partecipare è la rimozione di eventuali ostacoli normativi e l'integrazione delle risorse familiari con sussidi statali e privati.
Per finire vi è il fatto che chi giustamente si preoccupa delle pari opportunità spesso però tende a pensare che l'assenza o la scarsità di donne peggiorino le performance di un organismo, sia esso politico o economico. Le quote rosa, allora, oltre a favorire la promozione delle donne, renderebbero anche il mondo migliore: meno bellicoso e intollerante, più attento ai bisogni umani, più disposto a tutelare i deboli e più rispettoso dell'ambiente naturale. In sostanza si tratta della convinzione, di cui molte donne si compiacciono e molti uomini si vantano, che la donna sia intrinsecamente migliore dell'uomo: del che non esiste rilevanza statistica né prova scientifica. Di per sé la partecipazione femminile non fa funzionare meglio un parlamento, uno studio legale, una fabbrica, una scuola perché non esiste un modo maschile o femminile di amministrare, insegnare, svolgere una professione.
Per di più, fatto tutt'altro che secondario, spiegare i successi individuali delle donne non tanto in ragione di doti, capacità e valore personali, ma come risultato di una presunta superiorità di genere non migliora certo la stima di sé che alle donne si raccomanda di coltivare.
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