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È evidente che la “Lettera ai cattolici dell’Irlanda” di Benedetto XVI non è rivolta ai sociologi. Il Papa parla a una Chiesa ferita e disorientata dalle notizie relative ai preti pedofili. Denuncia con voce fortissima i “crimini abnormi”, “la vergogna e disonore”, la violazione della dignità delle vittime, il colpo inferto alla Chiesa “a un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione”. A nome della Chiesa “esprime apertamente la vergogna e il rimorso”. Affronta il problema dal punto di vista del diritto canonico – ribadendo con forza che è stata la sua “mancata applicazione” da parte talora anche di vescovi, non le sue norme come una certa stampa laicista pretenderebbe, a causare la “vergogna” – e della vita spirituale dei sacerdoti, la cui trascuratezza è alle radici del problema e cui chiede di ritornare attraverso l’adorazione eucaristica, le missioni, la pratica frequente della confessione. Se questi rimedi saranno presi sul serio è possibile che la Provvidenza, che sa trarre il bene anche dal peggiore di mali, possa nell’Anno Sacerdotale avviare per i sacerdoti “una stagione di rinascita e di rinnovamento spirituale”, dimostrando “a tutti che dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia (cfr Rm 5, 20)”. Peraltro, “nessuno si immagini che questa penosa situazione si risolverà in breve tempo”.
Tuttavia il Papa – che pure non intende certamente rubare il mestiere ai sociologi – offre anche elementi d’interpretazione delle radici di un problema che, certo, “non è specifico né dell’Irlanda né della Chiesa”. Dopo avere evocato le glorie plurisecolari del cattolicesimo irlandese – una storia di santità che non può e non deve essere dimenticata –, Benedetto XVI fa cenno agli ultimi decenni e alle “gravi sfide alla fede scaturite dalla rapida trasformazione e secolarizzazione della società irlandese”. “Si è verificato – spiega il Papa – un rapidissimo cambiamento sociale, che spesso ha colpito con effetti avversi la tradizionale adesione del popolo all’insegnamento e ai valori cattolici”. C’è stata una “rapida” scristianizzazione della società, e c’è stata contemporaneamente anche all’interno della Chiesa “la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo”. “Il programma di rinnovamento proposto dal Concilio Vaticano Secondo fu a volte frainteso”. “Molto sovente le pratiche sacramentali e devozionali che sostengono la fede e la rendono capace di crescere, come ad esempio la frequente confessione, la preghiera quotidiana e i ritiri annuali” furono “disattese”. “È in questo contesto generale” di “indebolimento della fede” e di “perdita del rispetto per la Chiesa e per i suoi insegnamenti” “che dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante problema dell’abuso sessuale dei ragazzi”.
In questo quarto paragrafo della “Lettera ai cattolici dell’Irlanda” Benedetto XVI entra su un terreno che è anche quello del sociologo, e che naturalmente non è rigidamente separato dagli altri elementi d’interpretazione. Certo, le norme del diritto canonico furono violate. Certo, la vita di pietà di molti sacerdoti si affievolì. Ma perché, precisamente, questo avvenne? E quando? Riprendendo temi familiari del suo magistero, Benedetto XVI elenca fra le cause il “fraintendimento” del Concilio – altrove ha parlato di una “ermeneutica della discontinuità e della rottura” –, non i documenti del Vaticano II in se stessi. Ma anche questo “fraintendimento” fu possibile in un quadro generale da cui la Chiesa non poteva completamente tenersi fuori, e che oggi è al centro di un vasto dibattito.
Benedetto XVI entra così nel vasto dibattito che è al centro della sociologia delle religioni contemporanea, quello sulla “secolarizzazione”. Il dibattito è stato particolarmente caldo alla fine del secolo XX, ma – anche attraverso scambi fra studiosi non sempre cortesi – è arrivato a un risultato che oggi la maggior parte dei sociologi condivide. Se le dimensioni della religione sono tre – le “tre B”, in inglese “believing” (credere), “belonging” (appartenere) e “behaving” (comportarsi) – tutti concordano che non c’è, in Occidente – perché è dell’Occidente che si parla, mentre per l’Africa o per l’Asia i termini sono diversi – una significativa secolarizzazione delle credenze (believing). La grande maggior parte delle persone si dichiara ancora credente. Nonostante un’attiva propaganda, il numero degli atei non aumenta. È invece chiaro a tutti che c’è un’ampia secolarizzazione dei comportamenti (behaving). Dal divorzio all’aborto e all’omosessualità la società e le leggi tengono sempre meno conto dei precetti delle Chiese. Il dibattito rimane vivo sulla secolarizzazione delle appartenenze (belonging) e sulla diminuzione della pratica religiosa, perché sul modo di raccogliere le statistiche ci sono molte polemiche e fra Stati Uniti ed Europa, così come fra diversi Paesi europei, i numeri variano. Non c’è dubbio, però, che in alcuni Paesi il numero di praticanti cattolici e protestanti sia sceso in modo particolarmente drastico negli ultimi cinquant’anni e che fra questi ci siano le Isole Britanniche, anche se in Irlanda le cifre assolute, pure in discesa, rimangono più alte della media europea.
Attenuatesi le polemiche sulla nozione di secolarizzazione, il dibattito si è ampiamente spostato sulle cause e le date d’inizio del processo, con un fitto dialogo fra storici e sociologi. Oltre una decina di anni di discussioni ha convinto la maggioranza degli studiosi che non si è trattato di un processo graduale. C’è stata una drammatica accelerazione della secolarizzazione – dei comportamenti e delle appartenenze, non delle credenze – negli anni 1960. Quelli che gli inglesi e gli americani chiamano “the Sixties” (“gli anni Sessanta”) e noi, concentrandoci sull’anno emblematico, “il Sessantotto” appare sempre di più come il tempo di un profondo sconvolgimento dei costumi, con effetti cruciali e duraturi sulla religione. C’è stato del resto un Sessantotto nella società e anche un Sessantotto nella Chiesa: proprio il 1968 è l’anno del dissenso pubblico contro l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, una contestazione che secondo un pregevole e influente studio del filosofo americano recentemente scomparso Ralph McInerny – Vaticano II, che cosa è andato storto? – rappresenta un punto di non ritorno nella crisi del principio di autorità nella Chiesa Cattolica. Ci si può anche chiedere se sia venuto prima l’uovo o la gallina, cioè se sia stato il Sessantotto nella società a influenzare quello nella Chiesa, o se non sia anche avvenuto il contrario. All’inizio degli anni 1990 un teologo cattolico poteva per esempio scrivere che la “rivoluzione culturale” del 1968 “non fu un fenomeno d’urto abbattutosi dall’esterno contro la Chiesa bensì è stata preparata e innescata dai fermenti postconciliari del cattolicesimo”; lo stesso “processo di formazione del terrorismo italiano dei primi anni ’70”, il cui legame con il 1968 è a sua volta decisivo “rimane incomprensibile se si prescinde dalla crisi e dai fermenti interni al cattolicesimo postconciliare”. Il teologo in questione era il cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel suo libro Svolta dell’Europa?.
Ma – ancora – perché gli anni 1960? Sul tema, per rimanere nelle Isole Britanniche, Hugh McLeod ha pubblicato nel 2007 presso Oxford University Press, un importante volume – The Religious Crisis of the 1960s – che fa il punto sulle discussioni in corso. Due tesi si sono contrapposte: quella di Alan Gilbert secondo cui a determinare la rivoluzione degli anni 1960 è stato il boom economico, che ha diffuso il consumismo e ha allontanato le popolazioni dalle chiese, e quella di Callum Brown secondo cui il fattore decisivo è stata l’emancipazione delle donne dopo la diffusione dell’ideologia femminista, del divorzio, della pillola anticoncezionale e dell’aborto. McLeod pensa, a mio avviso giustamente, che un solo fattore non può spiegare una rivoluzione di questa portata. C’entrano il boom economico e il femminismo, ma anche aspetti più strettamente culturali sia all’esterno delle Chiese e comunità cristiane (l’incontro fra psicanalisi e marxismo) sia all’interno (le “nuove teologie”).
Senza entrare negli elementi più tecnici di questa discussione, Benedetto XVI nella sua “Lettera” si mostra consapevole del fatto che ci fu negli anni 1960 un’autentica rivoluzione, non meno importante della Riforma protestante o della Rivoluzione francese, che fu “rapidissima” e che assestò un colpo durissimo alla “tradizionale adesione del popolo all’insegnamento e ai valori cattolici”. Con molto acume un pensatore cattolico brasiliano, Plinio Corrêa de Oliveira, parlò a suo tempo di una Quarta Rivoluzione – successiva appunto alla Riforma, alla Rivoluzione francese e a quella sovietica – più radicale delle precedenti perché capace di penetrare “in interiore homine” e di sconvolgere non solo il corpo sociale, ma il corpo umano.
Nella Chiesa Cattolica della portata di questa rivoluzione non ci fu subito sufficiente consapevolezza. Anzi, essa contagiò – ritiene oggi Benedetto XVI – “anche sacerdoti e religiosi”, determinò fraintendimenti nell’interpretazione del Concilio, causò “insufficiente formazione, umana, morale e spirituale nei seminari e nei noviziati”. In questo clima certamente non tutti i sacerdoti insufficientemente formati o contagiati dal clima successivo agli anni Sessanta, e nemmeno una loro percentuale significativa, divennero pedofili: sappiamo dalle statistiche che il numero reale dei preti pedofili è molto inferiore a quello proposto da certi media. E tuttavia questo numero non è uguale – come tutti vorremmo – a zero, e giustifica le severissime parole del Papa. Ma lo studio della “Quarta Rivoluzione” degli anni 1960, e del 1968, è cruciale per capire quanto è successo dopo, pedofilia compresa. E per trovare rimedi reali. Se questa rivoluzione, a differenza delle precedenti, è morale e spirituale e tocca l’interiorità dell’uomo, solo dalla restaurazione della moralità, della vita spirituale e di una verità integrale sulla persona umana potranno ultimamente venire i rimedi. Ma per questo i sociologi, come sempre, non bastano: occorrono i padri e i maestri, gli educatori e i santi. E abbiamo tutti molto bisogno del Papa: di questo Papa, che ancora una volta – per riprendere il titolo della sua ultima enciclica – dice la verità nella carità e pratica la carità nella verità.
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