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Il settimanale statunitense Time ha eletto “Uomo dell’anno” Ben Shlomo Bernanke, il governatore della Federal Reserve americana. A prima vista la scelta può avere diversi livelli di lettura. Si potrebbe infatti attribuire la scelta al ritorno dei mercati azionari ed obbligazionari mondiali verso livelli di quasi normalità: fenomenale in particolare è stato il rimbalzo della borsa americana, risalita quasi del 60 % negli ultimi nove mesi.
In tale ottica, dedicando la propria copertina a Bernanke, il Time avrebbe una motivazione ben chiara, proprio quella in effetti dichiarata. Sarebbe cioè un riconoscimento all’uomo che, dopo il quasi fallimento di Bear Stearns, il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac, GMAC e di AIG, e dopo l’isolato, ma traumatico fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, ha salvato – con fondi pubblici – il grosso del sistema bancario americano (Citibank, Bank of America, ecc.) e mondiale dal rischio di un’imminente sbriciolamento (o meglio dalla certezza di un’inarrestabile evaporazione). Non vi potrebbe essere impresa e risultato maggiore nel curriculum – non punteggiato da altri specifici e notevoli contributi teorici e pubblicazioni – di un comune professore di Princeton diventato il governatore della maggiore banca centrale del mondo. Bernanke, dunque, sarebbe, come Ettore o Achille in tempi epici, un eroe della finanza, un eroe della nostra epoca, che epica certo non è, dato che tutto basa sul calcolo economico e sul predominio della pecunia.
La ripresa economica è stentata, forse inesistente
Se questa è l’ipotesi corretta, si può dire come minimo che il riconoscimento da parte del Time è un po’ troppo precoce. La ripresa della borsa americana non ha molto senso perché, tranne pochissime eccezioni, la ripresa economica delle imprese è a dir poco stentata, se non inesistente, negli Usa come nel resto del mondo. Non sono ancora disponibili i bilanci delle imprese, ma di certo non saranno a tal punto brillanti da giustificare un così deciso rimbalzo borsistico.
In particolare, nei paesi più sviluppati, quei settori industriali che non hanno beneficiato di sussidi statali hanno registrato forti cali di fatturato, in media anche del 20 - 30 % – ed in certi casi anche del 50 %. Pur con ogni possibile acrobazia contabile, è difficile supporre perciò che nell’economia reale vi siano grossi utili, tali da giustificare le attuali quotazioni dei mercati finanziari. Laddove le imprese, in casi specifici, avranno pur potuto contenere in qualche modo i danni, nella maggior parte dei casi il risultato è stato ottenuto non grazie ad un aumento delle vendite, ma comprimendo i costi. Infatti la domanda aggregata – cioè delle famiglie, delle imprese e della pubblica amministrazione – è diminuita e negli Usa si stima un calo del 20 % dei consumi per le classi di reddito medio ed inferiore.
Disoccupazione negli Usa e in Cina.
Ridurre i costi significa che le imprese hanno potuto contenere le perdite riducendo gli investimenti per la ricerca e l’innovazione di prodotto e di processo, ma non solo. Spesso il contenimento delle “spese” è stato ottenuto soprattutto con riduzioni del personale. Di fatti, nonostante il pacchetto di stimolo senza precedenti storici, voluto con tanta enfasi da Obama, la disoccupazione americana è ancora in forte crescita: è oltre il 9 % secondo i dati ufficiali, oltre il 20 % se si adottano i più realistici criteri econometrici in vigore prima dell’era Clinton.
Non diversa è la situazione in molti altri Paesi. In Cina, ad esempio, i lavoratori migranti, che più di chiunque altro nel Paese hanno subito il peso della crisi, non ne hanno tratto beneficio nemmeno in termini di livelli di occupazione. Il loro impiego era e resta legato all’esportazione drogata dal tasso di cambio dello yuan renminbi – la valuta cinese – fortemente sottovalutato rispetto al dollaro ed alle altre valute convertibili.
Si può dire che i due maggiori pacchetti di stimolo economici del 2009, quello americano e quello cinese, non hanno sortito alcun effetto reale, per lo meno in termini di occupazione, che era l’obbiettivo preannunciato.
Era logico che così fosse perché i due Paesi vivono di una simbiosi speculare: uno produce, è la “fabbrica del mondo” grazie al cambio arbitrariamente fissato dal Partito Comunista Cinese; l’altro consuma: il 70 % del Pil Usa è dato dai consumi in deficit da vari decenni, fra cui deficit del commercio estero, del bilancio pubblico, del risparmio delle famiglie e del debito estero delle imprese americane.
Era logico che così fosse perché, al di là delle apparenze superficiali – il colore della pelle del nuovo presidente americano o i grattacieli e la “modernizzazione” del regime cinese – e delle speranze, o meglio delle illusioni generate dalle rispettive propagande, nessuno aveva ed ha intenzione di cambiare le distorsioni di fondo del sistema.
Era logico che così fosse perché la globalizzazione non poteva che produrre un sistema di interdipendenze squilibrate: è la sintesi hegeliana di due “moderne” contrapposizioni del secolo scorso, eredità ancora dell’ottocento, di due opposti, ma in pari misura strutturalmente squilibrati materialismi.
LO SPETTRO DELL’IPERINFLAZIONE
Se la ripresa della borsa americana da un lato non ha molto senso, dall’altro lato un senso ce l’ha. Purtroppo però è un senso davvero sinistro perché ci indica che i mercati finanziari si attendono e scontano il sopraggiungere dell’iperinflazione. Per chiarirci, il valore di un’azienda non è dato solo dalla sua capacità di produrre utili futuri, ma anche da quello intrinseco del suo patrimonio tangibile, ad esempio terreni, capannoni industriali e simili. Allo stesso modo la quotazione in borsa di un titolo non esprime solo gli utili attesi, ma i mezzi propri, i suoi averi. Se è difficile ipotizzare un incremento medio del 60 % dei profitti aziendali nel prossimo futuro è evidente che il rimbalzo di borsa può aver senso solo se si pensa che aumenti il valore dei beni delle aziende per effetto dell’inflazione. In tal caso, se le ipotesi sono corrette e le quotazioni di borsa adeguate, l’inflazione attesa è piuttosto forte, ben superiore al 60 % perché si devono scontare le perdite di esercizio di questo e dei prossimi anni. Dal punto di vista più generale dell’economia, se ne deduce che agli effetti di una fase - quella attuale - di grande depressione si andrebbero perciò a cumulare quelli di un inflazione a due o tre, anche quattro cifre. Gli economisti la chiamano iperinflazione, uno dei fenomeni più socialmente distruttivi. Dagli archivi della storia rispuntano quindi gli spettri della Repubblica di Weimar, che in Germania spianò la strada ad Hitler; da quelli della cronaca si riaffacciano i disastri dello Zimbabwe. Non è, non vuole essere, gratuito catastrofismo, ma solo un modo leggere in maniera razionale un rimbalzo borsistico che difficilmente è spiegabile in termini di andamento degli utili netti aziendali.
Si può certo ipotizzare che gli attuali valori di borsa negli Usa sono soltanto troppo gonfiati rispetto al probabile livello degli utili e di conseguenza dedurne un prossimo nuovo forte crollo.
L’ABISSO DEL DEBITO PUBBLICO AMERICANO
Anche se AsiaNews non ha pretese di essere un bollettino di previsioni finanziarie, questa seconda ipotesi non appare però convincente, pur ammettendo come probabile un forte saliscendi di borsa. La ragione sta nel livello davvero abnorme dell’indebitamento del sistema americano, includendo in tale definizione sia il debito formalmente emesso che gli impegni debitori. Nel settembre 2008 ad AsiaNews dopo i salvataggi finanziari effettuati fino ad allora da Bernanke - includendo nell’indebitamento pubblico anche quello delle amministrazioni locali e l’esposizione debitoria di enti a capitale pubblico - avevamo calcolato “debito pubblico americano” pari a “59.300 miliardi di dollari, e cioè 200.060 dollari pro capite di debito pubblico, inclusi vecchi, malati e bambini: il 429,37 % del Pil”. Secondo altri economisti – John Williams – la cifra oggi è ben maggiore, circa 75:000 miliardi di dollari, ben oltre cinque volte il Pil americano.
Se consideriamo che il debito delle famiglie americane è uno dei più alti al mondo, circa il 99 % del Pil; che il debito delle aziende Usa è anch’esso il maggiore del mondo, più del 300 % del Pil; che oltre il 95 % del debito estero statunitense è detenuto da residenti esteri, di cui circa il 50 % è detenuto da Giappone e Cina, l’ipotesi che il Tesoro americano non possa far fronte ai propri impegni mediante le imposte e che debba perciò ricorrere ad emettere sempre più moneta non è fantascientifica, ma probabile. In tali condizioni ci sono tutte le premesse dell’iperinflazione. Un qualsiasi evento politico, anche minimo, basterebbe come innesco. È dunque difficile che ci si possa sottrarre a tale esito, e le conseguenze politiche saranno a dir poco epocali non solo negli Usa, ma anche in Europa, in Asia e nel resto del mondo.
LA “SALVEZZA” DI UN GOVERNO BANCARIO MONDIALE
Quella attuale non è perciò solo una crisi peggiore di quella del ’29 - ’33. L’iperinflazione, quando la si lasci scatenare, azzera il debito pubblico ed il risparmio privato, ma soprattutto sradica ogni precedente struttura istituzionale. Forse è questo il segreto scopo dei vari governatori della Federal Riserve - tra cui Bernanke - che nel corso degli ultimi 20 anni hanno posto le premesse dell’iperinflazione: da un mondo prima bipolare, all’epoca dell’Unione Sovietica, e poi unilaterale, il segreto proposito, il loro vero intento nel porre le premesse dell’iperinflazione, era far in modo che si imponesse la costituzione di una banca centrale mondiale e di conseguenza pervenire ad un governo mondiale. Con più di sei miliardi di abitanti nel mondo, l’instaurazione di un impero mondiale significa che potremo ben presto dire addio ad ogni residua parvenza di democrazia e libertà. Il sogno di Serse di ordine, tolleranza e concordia mondiale si potrebbe forse concretizzare ai nostri giorni, a meno di nuove, forse improbabili, Termopili.
Questa – è però improbabile – potrebbe forse essere una seconda lettura della decisione del Time di dedicare la copertina a Bernanke. In altri termini l’onore tributatogli è così palesemente paradossale da far ipotizzare che sia un modo per lanciare un avvertimento in un mondo caduto sotto il dominio della falsità.
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