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L’obiettivo dichiarato del vertice di Copenhagen era arrivare a un Trattato che sostituisse il Protocollo di Kyoto, in scadenza nel 2012. Contrariamente a quanto previsto da Kyoto si voleva che il nuovo trattato impegnasse alla riduzione delle emissioni anche i paesi in via di sviluppo, a cominciare dai più grandi (Cina, India e Brasile) che sono ormai tra i più grandi emettitori. Come per Kyoto, l’impegno doveva essere vincolante, con obiettivi di riduzione delle emissioni ben definiti in modo da permettere il commercio dei crediti di carbonio (il cosiddetto sistema di “cap and trade”, che l’Unione Europea ha già adottato in ossequio al Protocollo di Kyoto).
Bene, non uno solo di questi obiettivi è stato raggiunto a Copenhagen, e questo dà l’idea delle dimensioni del fallimento del vertice, peraltro un fallimento annunciato.
Non solo, l’accordo raggiunto da USA, Cina, India, Brasile e Sudafrica – di cui gli altri paesi hanno preso atto – ha un che di surreale. Mentre si è rinunciato a indicare degli obiettivi di riduzione delle emissioni antropogeniche di CO2 (che almeno si possono misurare), si è stabilito di impegnarsi per non far aumentare le temperature di oltre 2°C rispetto all’era preindustriale. Cosa che ha dell’inverosimile perché nessuno è in grado di prevedere l’andamento delle temperature nei prossimi 10, 20, 50 o 100 anni. Potrebbero salire o potrebbero scendere, nessuno lo sa, e nessuno sarebbe comunque in grado di distinguere quanto è attribuibile all’attività umana. Né alcuno è in grado di stabilire di quanto crescano le temperature per un dato ammontare di emissioni di CO2 (vedi intervista al colonnello Malaspina).
Del resto nessuno aveva previsto che dal 1998 le temperature globali non sarebbero salite (tanto che il famoso Climagate ha a che fare anche con il tentativo di coprire questo dato “inspiegabile” dalla teoria del global warming). Peraltro se parliamo di cambiamenti climatici è anche assurdo limitarsi alle temperature che sono soltanto un fattore del clima. Ma questa è l’ennesima riprova che la “politica del clima” ha ben poco a che vedere con la “scienza del clima”.
Quanto ai motivi del mancato accordo, il problema è essenzialmente economico. Mentre l’Unione Europea ha scommesso sulla “Diplomazia Verde” (cfr. R. Cascioli-A. Gaspari , Le Bugie degli Ambientalisti 2, Piemme 2006) come fattore di leadership mondiale e l’amministrazione Obama ha cercato di recuperare il tempo perduto, ai singoli paesi appare chiaro che il costo per ridurre in modo significativo le emissioni è tale da distruggere le economie dei paesi ricchi, e impedire lo sviluppo degli altri.
Se la crisi economica da cui tanto faticosamente si sta uscendo e che tanto ha preoccupato il mondo, ha fatto sì che le emissioni antropogeniche di CO2 diminuissero di appena il 3% si può facilmente intuire – all’attuale livello di sviluppo tecnologico - di che crisi ci sarebbe bisogno per diminuire in pochi anni le emissioni del 20 o del 50%. I profeti ecologisti e i fanatici politici cambioclimatisti – Ermete Realacci, tanto per citarne uno - dovrebbero spiegare agli attuali disoccupati e a quelli che perderanno il lavoro nei prossimi mesi che in questo modo stanno salvando il pianeta.
In realtà l’unico modo per ridurre le emissioni è uno sviluppo che permetta la ricerca, la sperimentazione e l’adozione di nuove tecnologie: ma si tratta di un cammino che non può fissare date o obiettivi precisi. E soprattutto c’è bisogno di crescita economica (senza produzione di ricchezza non si può investire in ricerca e nuove tecnologie), ovvero la strada inversa a quella intrapresa.
Al di là dei proclami “verdi” molti leader occidentali si sono accorti di questa contraddizione: nessuno è così masochista da avallare politiche che distruggano l’economia del proprio paese (e il proprio consenso elettorale), ed è per questo che alla fine non si riesce a stabilire un obiettivo vincolante.
Allo stesso modo si comportano i paesi in via di sviluppo che, dietro alla retorica dei cambiamenti climatici, vedono – a ragione - il tentativo di frenare la loro ascesa economica, che significa anche maggiore potere politico e militare. Così da una parte i governi cercano di farsi pagare usando la stessa retorica dei cambiamenti climatici – “noi siamo le vittime delle vostre emissioni” -, dall’altra non accettano comunque di prendere impegni vincolanti. Peraltro, la strategia del rinvio alla conferenza successiva (adesso l’appuntamento è per Città del Messico 2010) garantisce di continuare a incassare soldi (secondo lo schema di Kyoto) mentre il negoziato per un nuovo trattato rimane perennemente in fase di stallo. I paesi ricchi, dal canto loro, alzano l’offerta in denaro e servizi (siamo adesso arrivati alla promessa di 100 miliardi di dollari) non per favorire lo sviluppo dei paesi poveri ma per convincerli a digerire un accordo che impedirà il loro sviluppo.
Si tratta di un mercato indegno creato sulle spalle di interi popoli, e che per il bene comune andrebbe azzerato immediatamente per lasciare invece il posto a progetti e strategie che favoriscano il reale sviluppo dei paesi poveri. Invece, il rinvio di un accordo sul clima a Città del Messico 2010 – con le solite stazioni intermedie - ci garantisce un altro anno di allarmi, rapporti inverosimili, mercanteggiamenti, proclami, un circo che costerà miliardi di euro e distoglierà dall’affronto dei veri problemi ambientali, che si possono riassumere in una sola parola: sottosviluppo.
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