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I risultati delle elezioni europee hanno confermato il crollo dell’ultima utopia: quella, nata alla fine degli anni Ottanta, dell’“Europa senza frontiere”, aperta ad ogni flusso economico e a ogni vento culturale, tranne quello proveniente dalla storia e dalla tradizione del Vecchio Continente.
La firma del Trattato di Maastricht, nel febbraio 1992, annunciò la fine delle sovranità nazionali e l’avvento di una moneta senza Stato. Dieci anni dopo, la Convenzione europea apertasi a Bruxelles fu l’ultimo tentativo di creare un “patriottismo europeo” fondato su di una costituzione senza Stato. Il Trattato costituzionale approvato nel 2004 a Roma e rimaneggiato nel 2007 a Lisbona non è ancora riuscito ad essere condiviso.
I referendum del 2005, in Francia e Olanda, e del 2008 in Irlanda, hanno rivelato fino a che punto i sogni della sinistra postmoderna fossero lontani dalle aspettative e dai bisogni dei cittadini europei. L’euroscetticismo è arrivato al punto che lo stesso presidente di turno dell’Unione Europea, il capo dello Stato ceco Klaus, ha dichiarato che «non esiste una reale comunità dei popoli europei» e che «le elezioni europee non sono necessarie» (“La Stampa”, 3 giugno 2009).
Dopo il voto di giugno, i socialisti, principali artefici dell’utopia europeista, sono in rotta dovunque, con l’eccezione della Grecia. I loro leader più noti, da Gordon Brown a Zapatero, escono a pezzi dalla competizione elettorale. La nuova geografia politica del Parlamento europeo vede l’avanzata del Partito Popolare, delle destre e dei conservatori, dalla Gran Bretagna, all’Austria, dall’Olanda ai Paesi dell’Est europeo. Perché la destre, di ogni tendenza, hanno avuto tanto successo? La ragione non sta certo nella crisi economica, pure esistente. In questo caso gli elettori avrebbero addossato la responsabilità della crisi alle dottrine economiche liberali professate dai partiti moderati e conservatori e rifiutate dai partiti socialisti, che sono stati invece i grandi sconfitti.
Il motivo vero sta piuttosto nell’allarme suscitato dal fenomeno di un’immigrazione crescente e senza controlli, che solo la cecità di un certo establishment progressista continua ad ignorare. Sullo sfondo sta il problema dell’entrata della Turchia in Europa, di cui non si è parlato in campagna elettorale, ma che rappresenta una delle più scottanti questioni sul tappeto internazionale. Può un’Europa che rinnega le sue radici cristiane, aprire le porte a un Paese che si caratterizza sempre più marcatamente per la sua identità islamica?
La Turchia odierna, guidata dal premier Erdogan e dal presidente Gul, islamisti di vecchia data, è caratterizzata da un’omogeneità religiosa sconosciuta a qualsiasi Paese europeo ed entra in Europa non certo per diluire questa identità, ma per affermarla vigorosamente. I suoi 85 milioni di abitanti ne farebbero la principale forza politica, in una Unione in cui la rappresentanza è proporzionale al peso demografico. Così L’Islam avrebbe il suo cavallo di Troia in Europa. Il Parlamento appena eletto dovrà porsi il problema, ormai ineludibile, dell’islamizzazione del nostro continente. Non basta infatti chiudere le frontiere geografiche per arginare un’espansione che rischia di divenire inarrestabile. Occorre rialzare quelle barriere culturali e morali che definiscono una civiltà e costituiscono l’unica vera diga contro la marea che ci minaccia. Il ritorno della morale avrebbe come prima conseguenza l’incremento demografico e questo incremento porterebbe al superamento di una crisi economica che, come ha sottolineato l’economista Ettore Gotti Tedeschi, è anche frutto della politica di denatalità dell’Occidente.
Quanti, tra i nuovi rappresentanti del Parlamento europeo, comprendono che ogni questione economica e politica ha una radice religiosa e morale?
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