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Vi descrivo le foto della campagna 'Contro la violenza sulle donne', affidata a Oliviero Toscani, che campeggiano da ieri sull’ultimo numero del settimanale Donna Moderna, oltre che sui siti Internet dei principali quotidiani.
A sinistra un bambino completamente nudo, con sopra la testa il proprio nome: Mario, impresso su una striscia nera e sotto i piedi la scritta: carnefice, anche quella su un graffito nerosporco. A destra una bimba ricciolina, anche lei nuda, con sopra la testa la scritta: Anna, sempre su una striscia nera, e sotto i piedi la scritta: vittima (sempre sul nero). La pelle bianca dei bambini contrasta col nero-sporco delle scritte, e la violenza delle due parole: carnefice, vittima. Quei due bambini sono già due vittime.
Bisogna avere un cuore ben duro per non provare pietà per queste creature innocenti, esposte sulla stampa nude in un tempo di pedofilia fuori controllo, per veicolare un messaggio di odio fra i due sessi. Quello dei carnefici, i maschi, e quello delle vittime, le femmine. Designati come tali fin dall’infanzia. Perché, il loro status di carnefice, e di vittima, è evidentemente impresso nella loro appartenenza di genere. Un marchio in questo caso scritto sotto due creature prepuberi, ma che, secondo la violenza contro l’infanzia applicata in manifesti recentissimi, potrebbe essere stampato su un braccialetto da neonato: Mario, maschio, carnefice. In un’intervista sul settimanale, alla domanda: «Perché non è Anna a diventare carnefice?», Toscani risponde: «Un po’ dipende dal sangue, dal Dna, non c’è dubbio». La spiegazione conferma, ma è pleonastica.
Quando sotto una figura umana, caratterizzata dal colore della pelle, o dal sesso, si scrive carnefice, il messaggio è: quelli con quella pelle, o quel sesso, sono carnefici.
Messaggi di questo tipo dovrebbero far diminuire l’insopportabile violenza maschile? Ne dubito fortemente. Sarebbe la prima volta che una campagna di discriminazione razziale, fin dall’infanzia, rende più mansueto il gruppo discriminato. I maschi sono già disperati, per non poter salvare i loro figli dall’aborto quando la madre decide altrimenti, per non poterli crescere se si separano, per la moda di discredito sociale che accompagna il loro genere. Infatti, il suicidio tra i maschi è tre volte più frequente che fra le femmine: nel 2004 (ultimo dato disponibile), in Italia vi hanno ricorso 924 femmine contro 3.154 maschi (anche le donne uccise da maschi, purtroppo, sono state il triplo degli uomini uccisi dalle donne: 114, contro 21). Al di là di questi dati estremi, ma ugualmente significativi, è di queste ore il risultato di un’indagine organizzata da una brava psicologa, Gianna Schelotto, in una serie di scuole, da cui è risultato che 6 ragazzi su 10 (il 62%) tra i 14 e i 16 anni preferirebbero risvegliarsi donne.
Buon segno? Non tanto.
Antropologia, sociologia, e psicologia, misurano come il malessere identitario alimenti i comportamenti più nefasti.
L’uomo tranquillo e generoso è quello che sa bene che la sua identità ha un valore, e il mondo lo riconosce. Il male bashing, il disprezzo del maschile, genera solo insicurezza, e devianza. Donne, uomini, e certamente i bambini innocenti spregiudicatamente utilizzati per veicolarlo, hanno tutto da perdervi.
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