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Le prostitute che scelgono liberamente di vendere il proprio corpo per guadagnarsi da vivere e sono soddisfatte del proprio "mestiere" non esistono. Sono invece tutte schiave, comprese le donne che lottano per la legalizzazione della prostituzione. A dirlo è Julie Bindel, autrice di un servizio dello Spectator che per smontare questo falso mito e raccogliere informazioni di prima mano ha girato per i bordelli di tutto il mondo per tre anni: ha condotto 250 interviste in 40 paesi e intervistato 50 sopravvissute al commercio sessuale. Molte le hanno raccontato della violenza, dell'uso di alcool e droghe che si accompagnano alla prostituzione. La conclusione a cui Bindel è arrivata è che quello che viene ipocritamente definito "il lavoro del sesso" in realtà è una nuova forma di schiavitù moderna.
IDEOLOGIA LIBERAL
Una delle scoperte più inquietanti, scrive la giornalista, è stata la constatazione che chi chiede con maggior forza la legalizzazione della prostituzione sono proprio coloro che più beneficiano di questo commercio: papponi, proprietari di bordelli e clienti. Tuttavia un'ideologia liberal esasperata (promossa dalla sinistra e da una parte di sostenitori dei cosiddetti "diritti umani") difende la scelta da parte delle donne di questa "attività" e il "diritto dell'uomo" ad usufruirne. Questa posizione risale al periodo delle campagne contro l'Aids, quando i promotori della legalizzazione erano convinti che la rimozione delle sanzioni penali e la creazione di "zone di tolleranza" avrebbe spinto le prostitute a rivolgersi ad agenzie di supporto e a dotarsi di contraccettivi, e avrebbe inoltre contribuito ad abbassare i livelli di violenza.
Bindel ha però constatato che queste teorie non reggono alla prova dei fatti. La legalizzazione in Germania, Olanda e Australia non ha portato a una diminuzione dell'Hiv e degli omicidi di prostitute. A Melbourne un'attivista dei diritti delle "lavoratrice del sesso" ha ammesso di essersi pentita di questa battaglia perché la legalizzazione non ha fatto alto che «dare più potere ai clienti e ai proprietari di bordelli».
FILO SPINATO
Le prostitute invece non ne traggono alcun beneficio reale. Bindel ha visitato un villeggio indiano basato interamente sulla prostituzione e dove ha parlato con un uomo che vendeva il corpo della figlia, della sorella e della zia; ha intervistato i papponi dei bordelli legali a Monaco; ha assistito al turismo sessuale nel sud-est asiatico da parte di anziani inglesi in cerca di giovane compagnia. In tutti questi casi è risultato evidente che le donne e le ragazze che si prostituiscono provengono da ambienti di violenza e abuso, vivono in povertà e sono emarginate. In Nevada e in Corea del Sud Bindel afferma di aver visitato bordelli in cui le prostitute vivono ammassate e recluse, a volte prigioniere dentro un muro con del filo spinato. Se le galline da allevamento venissero trattate nello stesso modo, scrive la giornalista, gli stessi attivisti che vogliono permettere il commercio di carne umana si sarebbero aizzati per difendere dei pennuti.
Ma non sono solo le donne ad essere abusate: anche la prostituzione maschile è un fenomeno rilevante. Bindel ha conosciuto uomini violentati da bambini che si sono poi lasciati convincere a commerciare il proprio corpo negli ambienti omosessuali.
COME UN HAMBURGER
Alcuni clienti intervistati dallo Spectator nel Regno Unito e in altri paesi hanno spiegato che ricorrono alle prostitute perché queste «fanno tutto quello che si chiede loro. Non come le altre donne». Un altro sostiene che «non è diverso da acquistare un hamburger quando hai fame e tua moglie non ti ha preparato niente». E tutti rivendicano il diritto degli uomini disabili a cercare il piacere attraverso le prostitute.
Nel 2015 è stata approvata in Gran Bretagna la legge contro la schiavitù moderna. Essa si basa sull'idea che non ci sia spazio per l'ambiguità quando si guarda alle condizioni di soggetti che questa legge si propone di tutelare. Lo stesso, scrive Bindel, dovrebbe valere per la prostituzione: non si possono dimenticare le condizioni di violenza e abuso a cui le donne sono sottoposte e la loro incapacità a liberarsi da questo gioco. Cambiare il nome da prostituzione a "lavoro del sesso" serve solo a coprire la verità e a farci sentire meno colpevoli. [leggi: L'ULTIMA INTERVISTA A DON BENZI, clicca qui, N.d.BB]
Nota di BastaBugie: Francesca Parodi nell'articolo sottostante dal titolo "Le sopravvissute alla schiavitù della prostituzione" parla della comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Bensi, che in 25 anni ha tolto dalla strada più di 7 mila donne e ragazze.
Ecco dunque l'articolo completo pubblicato su Tempi il 7 aprile 2017:
Una ragazzina nigeriana, 17 anni appena compiuti, si aggira sul marciapiede di una strada di periferia in attesa di qualche cliente. È arrivata in Italia dopo che la madre l'ha abbandonata, il padre è stato ucciso e un uomo di cui si fidava le ha detto: «Ti troverò io un lavoro, là in Italia, dove potrai guadagnare e farti una vita». Le speranze della ragazzina sono presto sprofondate nel girone della schiavitù e dello sfruttamento da cui è difficile uscire, per paura o mancanza di alternative. Finché un giorno, su quel marciapiede, la ragazza viene avvicinata da un gruppetto di tre o quattro persone, di cui una donna, che iniziano a parlare con lei. Si presentano come volontari della comunità Papa Giovanni XXIII, un'associazione con l'obiettivo di salvare le ragazze dalle strade. Le chiedono la sua storia e cercano di convincerla a seguirli. Le lasciano un cellulare con cui poterli contattare, ma ritornano più volte a cercarla, perché lei è diffidente. Alla fine però, decide di fidarsi e di cambiare vita. È così che conosce Irene Ciambezi, un'operatrice della comunità Papa Giovanni XXIII, che la accoglie nella propria famiglia.
«Si è subito integrata con gli altri membri e le persone, anche disabili, che ospitiamo, dimostrando una grandissima sensibilità verso la sofferenza altrui» racconta Irene a tempi.it. «Ha iniziato a studiare e a frequentare una scuola di cucina, vivendo come una qualsiasi ragazza della sua età. Ora è indipendente, ma rimaniamo molto legate e ci sentiamo regolarmente». Questa è solo una delle tre storie che Irene racconta nel suo libro Non siamo in vendita, ma l'operatrice è venuta a contatto con centinaia di altre ragazze che hanno vissuto vicende simili, prima di essere recuperate.
«Le chiamiamo "le sopravvissute" perché, come questa ragazzina nigeriana, molte altre attraversano il deserto del Sahara alla mercé dei trafficanti di esseri umani e in condizioni di denutrizione, poi arrivano in Libia dove sono tenute ferme per mesi e spesso violentate, quindi affrontano i viaggi sui barconi dove rischiano la vita tra le onde, e alla fine diventano schiave della prostituzione».
Per tentare di salvarle, si usa uno schema comune: «Utilizzando vetture dell'associazione (in modo che dalla targa non si risalga agli operatori) ci avviciniamo alle ragazze. La nostra comunità opera a livello nazionale e abbiamo a disposizione 24 unità di strada in tutta Italia, ciascuna delle quali comprende volontari e mediatori culturali. Spesso le ragazze negano di essere prostitute, e allora ci vuole tempo per costruire un rapporto di fiducia. Puntiamo molto sulla nostra disponibilità all'ascolto, rimanendo con loro anche di notte per dimostrare che vogliamo condividere la loro sofferenza». Quando la ragazza si lascia convincere, gli operatori ricostruiscono la sua storia migratoria, eventualmente contattano i parenti e la trasferiscono in una struttura d'accoglienza o in una famiglia lontana dal luogo in cui è stata trovata, «sia per evitare che gli sfruttatori la cerchino, sia per il suo benessere psicologico». Quindi viene inserita in un programma di recupero e di integrazione, che prevede anche la scolarizzazione e un'assistenza psicologica.
In questo modo, la comunità Papa Giovanni XXIII ha salvato in 25 anni più di 7 mila di donne e ragazze dalla strada. Secondo i dati dell'associazione, in Italia sono tra le 75 mila e le 120 mila le vittime della prostituzione, di cui il 65 per cento esercita in strada e il 37 per cento ha un'età compresa tra i 13 e i 17 anni. La maggior parte di queste donne proviene dalla Nigeria, molte da Romania, Albania e paesi dell'est. La prostituzione è la terza industria illegale al mondo dopo quella di armi e droga, e il giro d'affari che questo mercato produce è di circa 90 milioni di euro al mese.
Per sensibilizzare l'opinione pubblica riguardo a questo fenomeno di sfruttamento, la comunità ha organizzato per venerdì 7 aprile la «Via Crucis per le donne crocifisse», quest'anno alla sua terza edizione: una processione di ex prostitute, ma anche di testimonial, sfilerà per le vie del quartiere romano della Garbatella portando sulle spalle la croce. Papa Francesco, che già quest'estate aveva visitato una delle case della Papa Giovanni XXIII, ha invitato i romani a partecipare a questa iniziativa e ha esortato la comunità a proseguire nella sua missione.
Non solo: l'associazione ha avviato una campagna per chiedere al parlamento italiano una legge sul modello nordico, che riconosca la corresponsabilità del cliente nello sfruttamento di queste donne e preveda una sanzione nei suoi confronti. È stato infatti rilevato, scrive la comunità sul sito, che in Germania, Danimarca e Paesi Bassi la legalizzazione ha aumentato la richiesta di prostitute, mentre in Svezia e Norvegia l'applicazione di una legge che sanziona i clienti ha fatto notevolmente diminuire il numero di prostitute (rispettivamente del 65 e del 60 per cento).
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